Chopin
Con il polacco Fryderyk Chopin (Zelazowa 1810 – Parigi 1849) si fa ritorno agli estremi del romanticismo. Nella sua produzione, che fu ristretta quasi esclusivamente al pianoforte, di cui fu detto giustamente poeta, cantò unicamente se stesso i più chimerici e fantastici erramenti dell'anima, gli elementi delicati, ardenti, talvolta torbidi e morbosi delle proprie passioni e della propria malinconia, e raggiunse una perfezione totale nella trasformazione di tali elementi psicologici in fantasmi artistici. Tutti i problemi stilistici e formali presenti nella musica romantica sono in lui risolti prima ancora di esser posti: abbandona l'imitazione delle venerabili forme classiche, la sua invenzione musicale si attua spontaneamente in forme brevi, saldamente concatenate eppure liberissime, elastiche a contenere e giustificare qualunque erramento della fantasia. Il suo linguaggio musicale, rinsanguato da vergini linfe popolari e irrobustito da uno studio amoroso e costante della più tersa classicità, è audacemente originale, capace dei più arrischiati ardimenti armonici che pure, in lui, non prendono mai un aspetto provocante di partito preso, ma avvengono con la più grande naturalezza. E' un linguaggio che pare sorto completo e intatto dal nulla, per generazione spontanea: non gli si conoscono antecedenti. La sua perfezione stilistica, che gli permise di tramutare tutto in poesia senz'ombra di residui prosastici, dà senzo al paragone tra Chopin e Leopardi, più ancora che le analogie di contenuto umano. Mentre infatti il dolore leopardiano si amplia a risonanza cosmica, quello di Chopin rimane d'ordine strettamente personale, al più patriottico, e la sua universalità la ripete unicamente dall'arte. Ha anche le sue giustificazioni l'accostamento di Chopin a Baudelaire. Qualcosa di torbido e di malato fermenta indubbiamente sotto il velo di fragile candore che ammanta le opere di Chopin: è il male romantico dell'inettitudine a vivere, la sostituzione dell'arte alla vita, il timore della realtà e l'anelito insoddisfatto a chimerici sogni. Quasi che la natura non esista, viene interpretata come un tratto della modernità, dettato da quest'attitudine ad astrarre dal mondo esterno per immergersi morbosamente nei più intimi recessi dell'animo e fermarne le più abili ombre: si sorride, si ama, ci si entusiasma, ma è apparenza. La realtà costante dell'anima è il dolore, la rinuncia. La svagata fantasticheria sostituisce la vita non vissuta e conferisce una deliziosa apparenza d'improvvisazione alla musica, sempre pronta ad abbandonare il filo prestabilito del discorso per andar dietro a divagazioni e a suggerimenti improvvisi, come cogliere un fiore sul margine di un sentiero.